Nel 2007 mi trovavo a Yerevan per la prima volta e ammetto non conoscevo molto dell’Armenia. Ricordo che era fine gennaio e le strade erano tutte ghiacciate. Non faceva eccezione la Sayat-Nova Avenue, che percorsi più volte durante i miei giri in centro città, chiedendomi chi fosse il personaggio al quale rendeva omaggio. Prontamente, mi fu detto che era un grande poeta e un musicista armeno del Settecento. Qualche giorno dopo incontrai di nuovo Sayat-Nova nel monastero di Haghpat, nel nord dell’Armenia, dove il poeta visse e fu infine ucciso dai persiani. Ma che ci faceva un poeta di corte in un monastero? Lo scoprii qualche giorno più tardi, quando visitai la casa museo di Sergei Parajanov, l’ultima dimora del regista perseguitato dai sovietici, che in effetti trascorse più tempo in carcere che in questo bell’edificio con vista sull’Ararat. Nel 1968 Parajanov diresse “Il colore del melograno”, il film sulla vita di Sayat-Nova che diventò il suo capolavoro, anche se le autorità sovietiche lo bollarono come opera deviata. Il film, onirico e fantastico, mi fece incuriosire ancor di più sulla figura di questo trovatore che scriveva poesie in tre lingue, girava le corti del Caucaso cantando e suonando diversi strumenti davanti a re e nobili, era anche un ecclesiastico della Chiesa Armena e scriveva liriche d’amore. Sayat-Nova era entrato nella mia vita, dovevo scoprire di più su questo personaggio geniale.
Da allora, ho avuto modo di approfondire la conoscenza di Sayat-Nova, soprattutto quando qnel 2010 scrissi il capitolo sulla letteratura nella mia guida dell’Armenia. Questo trovatore armeno mi aveva colpito fin dall’inizio: parlava perfettamente tre lingue e componeva i suoi canti in armeno, la sua madrelingua, in georgiano e turco azerì. Per uno come lui, armeno nato a Tbilisi, che viveva come poeta di corte spostandosi di città in città attraverso il Caucaso, conoscere tre o quattro lingue – se includiamo il persiano – era normale. Ma Sayat-Nova si spinse oltre: componeva i suoi canti mescolando parole ed espressioni in tutte e tre le lingue contemporaneamente, sempre attendo alle più piccole sfumature di suono e di connotazione di ogni parola. “Poeta colto e raffinatissimo, Sayat-Nova si ispirava a diverse tradizioni dell’oriente islamico e cristiano. La sua poesia, che si avvale di tecniche melodiche complesse, inaugura la poesia d’amore moderna e appare di sorprendente attualità, sospesa com’è tra le illuminazioni della bellezza e il dolore della storia.” Così recita il testo in quarta di copertina del libro che vi sto per presentare.
Con queste premesse, potete immaginare la mia meraviglia quando ho saputo che Paola Mildonian, già professore ordinario di Letterature comparate all’Università Ca’ Foscari di Venezia, la scorsa primavera ha dato alle stampe il volume “Sayat-Nova. Canzoniere armeno” (Edizioni Ariele, Milano). Si tratta della prima traduzione integrale in italiano del canzoniere del più grande trovatore caucasico del XVIII secolo. Paola Mildonian ha affrontato un lavoro davvero complesso, che ha richiesto tutta la sua esperienza di studiosa e di traduttrice di poesia dall’armeno e da altre lingue. Lo scorso novembre a Belluno, ho avuto modo di partecipare a un incontro sull’Armenia con lei, nel quale ha letto alcune poesie di Sayat-Nova, accompagnata dalla musica tradizionale armena che Minas Lourian, direttore della sezione musicale del Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena di Venezia, aveva portato in quella occasione. Fu allora che mi venne l’idea di fare a Paola alcune domande sul questo lavoro, che l’aveva impegnata per anni. Le sua risposte fanno trapelare quanto profondamente la sua biografia personale e la sua “armenità” si intreccino con la sua professione di studiosa di letterature comparate e traduttrice, che si esprime al massimo nell’opera di traduzione di un autore complesso come Sayat-Nova. Allo stesso tempo, tuttavia, emerge dalle risposte di Paola Mildonian una passione per la poesia di Sayat-Nova, che non ci fa solo apprezzare, ma proprio amare questo autore. Grazie al suo lavoro, dalle strade di Yerevan, Sayat-Nova è finalmente arrivato in casa mia!
“Fai pure a pezzi il tuo Sayat-Nova, purché tu venga nel mio giardino.”
Intervista a Paola Mildonian
1. Quanto tempo ci è voluto per tradurre il Canzoniere e dare alle stampe questo lavoro?
Ho cominciato a interessarmi a Sayat-Nova alla fine degli anni ottanta pubblicando alcune traduzioni sulla rivista Il Caffè e in seguito nel 1992 una scelta antologica più consistente di una quindicina di poemi in un numero speciale di In forma di Parole. Nel 1998 ho inserito una piccola scelta di Sayat-Nova accanto ad altri poeti del medioevo armeno nell’antologia Canto d’Armenia a cura di B.L. Zekiyan (1998). Ho ripreso la traduzione nel 2014 dopo aver ricevuto la proposta del dott. Cavagnoli e della sua casa editrice Ariele di Milano, e ho lavorato fino al marzo 2015. Contrariamente alla tradizione più comune che in Sayat-Nova ha voluto ravvisare un poeta popolare sono stata colpita fin dall’inizio dalla complessità e dalla raffinatezza della sua poesia, come del resto di tutta la poesia ashkharhabar (in armeno demotico) del medioevo armeno che trova i suoi modelli all’incrocio di diverse tradizioni cristiane e islamiche, ispirandosi ad esempio alla mistica cristiana così come al sufismo.
2. Quali sono state le maggiori difficoltà?
Ci sono notevoli difficoltà linguistiche e ortografiche che ho cercato di chiarire in una apposita nota dell’introduzione. Sayat-Nova fu un caso unico di trovatore perfettamente trilingue che cantò nelle tre lingue del Caucaso (armeno, azerì e georgiano) e fu il primo a voler raccogliere le sue composizioni in un canzoniere (Daft’ar=quaderno). Il passaggio dall’oralità alla scrittura era molto arduo. L’autore era di madrelingua armena e come tutta la popolazione armena di Tiflis (odierna Tbilisi) conosceva perfettamente il georgiano; conosceva ovviamente gli alfabeti delle due lingue, mentre è probabile che avesse pochissima dimestichezza con l’alfabeto turco-ottomano, anche se la sua professione di ashugh imponeva una perfetta padronanza del turco azerì e del persiano (lo Scià, Ismail I, fondatore della dinastia Safavide e della poesia in lingua azerì era il nume tutelare di tutti gli ashugh).
Del resto dalla fine del ‘600 e fino alla riforma ortografica del 1928 l’alfabeto armeno era abitualmente usato per i testi in lingua turca, soprattutto per la letteratura d’intrattenimento ad uso dei molti armeni turcofoni. L’alfabetizzazione avveniva per lo più ad opera delle istituzioni religiose e perciò gli armeni conoscevano l’alfabeto armeno e la lingua armena classica dei testi religiosi, ma nella parlata quotidiana potevano mescolare il turco e l’armeno o addirittura limitarsi all’uso del turco. Dunque era abbastanza scontato che Sayat-Nova trascrivesse i suoi canti azeri con l’alfabeto armeno. Meno scontato appare l’uso dell’alfabeto georgiano in molti canti armeni. Tuttavia, potremmo trovare una risposta se consideriamo che Sayat-Nova ebbe per primo la difficoltà di adottare l’ortografia e la fonetica dell’armeno classico (che per altro conosceva bene come dimostrano i colofoni di alcuni manoscritti da lui copiati) alla sua lingua parlata (o meglio cantata) che si sviluppava all’incrocio tra le due diverse pronunce moderne quella dell’armeno orientale e quella dell’armeno occidentale (e ciò nella sua stessa famiglia dato che il padre era di Aleppo e la madre della provincia di Sanahin).
Dunque restituire il testo del Canzoniere armeno in una forma leggibile è già un‘impresa ardua. A ciò si aggiungono le difficoltà di un linguaggio mescidato: almeno il 30% del lessico dei canti armeni è costituito da parole straniere o dialettali, che non sono mai introdotte a caso, ma con specifici significati che appartengono alla cultura degli ashugh. Vi sono in tal senso molti “sinonimi” perché il termine d’origine turca, araba o persiana è specializzato in un suo significato canonico e il termine armeno che ne condivide il campo semantico si specializza a sua volta, generalmente con un significato più ampio. Questo vocabolario così variegato sviluppa un cospicuo corredo di problemi interpretativi che si risolvono solo in parte e a mano a mano che si procede nella lettura e nell’approfondimento dell’intera opera. L’esercizio del dubbio è costante nella lettura di Sayat-Nova. E se nel mio lavoro sono infine arrivata a una possibile interpretazione è grazie all’opera di quanti mi hanno preceduto: anzitutto il gigantesco lavoro di M. Hasratʿyan, che tra il 1945 e il 1963 realizzò la prima edizione dell’opera di Sayat-Nova traducendo in armeno anche i poemi dei canzonieri in lingua azerì e in georgiano; quindi gli studi di H. Baghchʿinyan che da trent’anni si dedica all’analisi dei canti di Sayat-Nova e che nel 2003 ha pubblicato a Erevan una nuova edizione del Canzoniere. Ho avuto anche l’enorme fortuna di avere a mia disposizione (grazie a Roger Tcherpachian, cugino bibliofilo) una copia della oggi rarissima prima edizione (1852) del canzoniere armeno ad opera di G. Akhverdean. Naturalmente è stato fondamentale il dizionario dei canti edito nel 1963 da A.K. Kʿochʿoyan e il confronto con i traduttori che mi hanno preceduto da Padre Mesrob Gianascian a Ch. Dowsett a E. Mouradyan e Serge Venturini.
3. Quali le maggiori soddisfazioni?
Le soddisfazioni sono tante. Anzitutto aver prodotto la prima traduzione integrale comprensiva dei canti di sicura attribuzione e però anche delle appendici. Ma soprattutto aver avuto un contatto così profondo con il poeta e con la sua parola.
Superare le ardue difficoltà che stanno a monte dell’atto della traduzione (e tanto più della traduzione poetica che è di per se stessa già una sfida continua) è un’avventura linguistica ed estetica unica. È come navigare nella tempesta e insieme nella fluidità delle lingue e delle parole in cerca di un territorio che possa appartenere a due espressioni e a due sensibilità diverse, anzi diversissime, vederlo approssimarsi e allontanarsi più volte, e raggiungerlo infine ora con un sentimento di soddisfazione ora di approssimazione, talvolta di delusione e di rinuncia.
4. Che cosa ti ha spinto a sobbarcarti in un lavoro così imponente?
Non credo che “imponente” sia l’aggettivo più adeguato. Ho considerato sempre il lavoro filologico come un bellissimo gioco della conoscenza. La mia formazione universitaria con una tesi in glottologia (o meglio in una linguistica comparata indoeuropea che aveva già la finalità di una descrizione tipologica delle dinamiche in sincronia e in diacronia delle lingue) e la prima parte della mia ricerca e del mio insegnamento di lettere classiche (latino e greco) mi hanno indirizzato e insieme mi hanno costretto (ed era una costrizione accolta con molto entusiasmo) a un esercizio continuo di traduzione tra lingue, discorsi, testi e culture. I trent’anni che ho dedicato in seguito alla letteratura comparata dal primo incarico universitario nel 1979-80 fino alla cattedra e infine al pensionamento nel novembre 2009 sono stati un naturale ampliamento e insieme una conferma di questa esperienza.
Ma di fatto la traduzione ha segnato la mia esistenza fin dai miei primi anni. L’armeno è statola mia lingua madre, ma all’incrocio di idiomi, tradizioni e identità diverse. Sono nata a Venezia sei mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia. Mio padre che da bambino era sopravvissuto al genocidio e nel ’18 aveva raggiunto uno zio che viveva a Venezia, aveva fatto i suoi studi liceali al Collegio Armeno Moorat-Raphael di Venezia e gli studi universitari a Padova. Era cresciuto perfettamente bilingue, anzi trilingue se consideriamo che da bambino era già bilingue (armeno-russo) e in russo aveva fatto i primi anni delle elementari; credo si sentisse come me al cento per cento armeno e insieme italiano. Mia madre invece era un’armena della diaspora, era nata al Cairo e quando nell’agosto del ‘39 decise di raggiungere il suo fidanzato, che era stato mobilitato, e di anticipare le sue nozze, non aveva avuto ancora il tempo di studiare l’italiano. Pensava che l’ottima conoscenza che aveva dell’inglese e del francese l’avrebbero aiutata, ma di lì a poco mio padre, che era ufficiale medico della Marina, fu mandato a Meline sulle Bocche di Càttaro (Montenegro) dove l’Italia aveva un grande complesso ospedaliero e dove la sua presenza era particolarmente utile data la sua buona conoscenza del serbo-croato. Sarebbe ritornato alla fine della guerra.
Insomma le mie prime parole furono storpiate sull’armeno e appresi bene l’italiano solo quando dopo la fine della guerra cominciai a frequentare la scuola materna. In prima elementare avevo una maestra senese e mio padre mi prendeva in giro quando mi sentiva dire “costì, costà” con l’aspirata. A partire dal ‘46 conobbi anche i miei nonni materni che erano originari della Bulgaria e di Istanbul; sentivo ogni tanto strane parole arabe o più di frequente turche nella parlata della nonna Eugenia, parole che non dovevo assolutamente usare perché la mamma era in fatto di lingua armena severamente purista. E, diciamolo, predicava benissimo ma talvolta razzolava male, perché lei stessa finiva per usare qualche espressione inglese o francese; che non essendo colpita da interdetto traghettava nella mia testa come fosse armena. E così fu con un certo ritardo che conobbi la vera origine di sitting-room e di robe de chambre che io avevo tranquillamente stoccato nel mio vocabolario armeno come corrispettivi di “salotto” e di “vestaglia”.
Mi scuso di questa parentesi autobiografica che a me sembra buffa, ma probabilmente è solo noiosa, e che però spiega le mie scelte di studio e di vita almeno quanto il mio curriculum vitae e molto più dell’elenco delle mie pubblicazioni. Spero soprattutto che serva a giustificare il continuo spostamento dei miei interessi di comparatista attraverso diversi campi di ricerca teorica e applicata e il mio rifiuto del comparatismo cosiddetto binario. Molto prima del trionfo dell’interculturalismo ho respinto il comparatismo come contatto tra due autori, punto di vista di una cultura (o di una letteratura) su un’altra, gioco di canoni contenutistici e di influenze più o meno egemoni. Ho considerato la comparatistica non solo come punto di vista ma come una necessità della teoria e della storia della letteratura, e ho adottato una visione fluida e molteplice, in cui la traduzione era una sorta di stella polare, un movimento necessario della mente e dei sensi e delle loro esperienze nel continuo confronto con i diversi sistemi espressivi di cui l’umanità si è dotata in ogni angolo della terra e in ogni percezione e comprensione dello spazio e del tempo.
5. Hai un legame speciale con Sayat-Nova e i suoi testi?
Credo di aver in parte risposto a questa domanda. Ma di certo ho anche un legame più specificamente poetico e critico che pertiene alla mia formazione filologica e alla mia attività di comparatista.
Sayat-Nova fu un trovatore che visse nel XVIII secolo (1712/22 – 1795) e dunque nell’ultima fase di quello che viene chiamato il medioevo armeno. Come i trovatori provenzali anche i trovatori caucasici erano poeti di corte e seguivano modelli cortesi, abbastanza simili a quelli della finʿamor (l’amor cortese) dei trovatori occidentali. Supporre contatti tra le due tradizioni, seppure in tempi molto più antichi, sarebbe davvero azzardato, anche se la presenza dei crociati è ampiamente documentata nella lingua e nella cultura, oltre che nella storia armena. Ci sono invece indubbie corrispondenze analogiche e tipologiche nei modelli letterari e sociologici a cui la poesia trobadorica fa riferimento; per la tradizione francese e germanica essi sono stati analizzati dal romanista tedesco Erich Köhler. Sulle tracce di Köhler (Sociologia della finʿamor) possiamo notare che anche in Sayat-Nova la Dama può sostituirsi (polemicamente!) al signore, e così come i trovatori provenzali s’indirizzavano a lei con l’appellativo maschile di “mio signore” midons, anche Sayat- Nova si rivolge alla sua dama con parole inequivocabili: “tu sei il mio scià e il mio khan”; ed è chiaro il riferimento alle due autorità supreme, lo Scià di Persia e il Khan, il principe caucasico suo vassallo, nello specifico il principe georgiano Irakli II (o il di lui figlio Giorgi), alla cui corte Sayat- Nova operò come ashugh.
Parallelismi con la tradizione trobadorica sono stati sottolineati da un grande orientalista e caucasologo come Charles Dowsett, che ha tracciato anche alcune analogie biografiche tra la vicenda di Sayat-Nova e quella di alcuni poeti della tradizione occitanica; ha anche sottolineato la vicinanza tra Sayat-Nova e un grande poeta latino, Ovidio, a sua volta colpito dalla tragedia di un esilio misterioso. La vita di Sayat-Nova fu contrassegnata da due allontanamenti dalla corte dei principi georgiani. La prima, nel 1751-2 , fu seguita da una reintegrazione avvenuta un anno dopo, la seconda del 1759 fu definitiva e segnò la drammatica fine della sua vita di poeta di corte. Per divenire ashugh Sayat-Nova aveva infatti seguito un lungo apprendistato poetico e musicale fino a trent’anni (il canto più antico in lingua azerì risale al 1742 e in lingua armena al 1747). Sarebbe stato accolto a corte intorno a queste date.
I motivi per cui una decina d’anni più tardi fu allontanato per la prima volta non sono noti. Sayat-Nova parla spesso di un tradimento e della sua lealtà nei confronti del sovrano, lealtà fondata non su un rapporto tra suddito e signore ma su un patto d’amicizia paritario, un patto a cui nessuno dei due poteva venire meno: è evidente che i traditori sono da ricercare tra i cortigiani, forse tra gli stessi ashugh invidiosi dell’eccezionale primato di Sayat-Nova, ma il motivo per cui per due volte il sovrano amico amabile (sirun) non poté evitare la disgrazia del poeta dovevano essere seri e forse non estranei all’amore che Sayat-Nova nutriva per la principessa Anna Batonishvili, figlia di Teimurazi, e sorella di Irakli II, sposata a Dimitri Orbeliani. Ad Anna (arm. Ani, nome talvolta celato in un crittogramma) sono dedicati tutti i canti d’amore, e non si tratta solo di formule di maniera, del dovuto omaggio del poeta alla prima dama della corte. Sono canti che nascondono dietro immagini canoniche gli accenti della passione e della follia d’amore.
6. A chi consigli di leggere questo libro?
Non mi permetto di dare consigli. Credo che potrebbe interessare quanti si occupano delle culture di mediazione oltre che ovviamente quanti si dedicano alla letteratura e alla musica armena e più ampiamente caucasica. Ma mi piacerebbe soprattutto che questo libro fosse gradito a quanti amano la poesia e, se posso azzardarmi a dirlo senza sembrare troppo superba, che servisse a sviluppare l’amore per la poesia. Perché credo che oggi nel nostro paese, ma anche nel resto d’Europa, non si legga più la poesia, e si coltivi il falso pregiudizio che la poesia è qualcosa di complicato, destinato agli addetti ai lavori, che non si può capire se non attraverso la parafrasi di un professore. Ma non è vero. La poesia è molto più immediata d’ogni altra forma di discorso.
La giuria del premio “Benno Geiger” per la traduzione poetica ha avuto la bontà di attribuirmi un premio speciale alla carriera per questa mia traduzione: nella motivazione si diceva che la mia versione italiana di Sayat-Nova aveva il merito di poter essere letta anche da chi non poteva fruire del testo armeno,come fosse poesia originale, e questo mi ha profondamente commosso. La poesia rende semplice e immediato il discorso più complesso.
Il linguaggio d’amore di Sayat-Nova (e di tutta la poesia degli ashugh) ha le sue radici nella poesia arabo-persiana e si fonda su un’armonia formale che rispecchia la bellezza della donna nella perfezione del creato. Il volto ha la rotonda perfezione della luna, gli occhi splendono come soli, archi sono le sopracciglia e frecce le ciglia, i denti sono perle e gemme, le labbra rubini, l’incarnato ricorda le sete più preziose dell’Europa e dell’Asia – i rasi e i satin francesi, i lampassi e i broccati italiani, i veli dipinti a batik dell’India, ma anche i preziosi cotoni del Nuovo Mondo. Nel corpo della donna si compone l’intera natura. La vita è di gazzella, la statura di cipresso, le braccia lisce come il bosso, le dita sono di cera purissima, il profumo è quello del basilico in fiore. Rosa e usignolo sono invocati per ricordare il servizio d’amore: il poeta canta come l’usignolo le grazie dell’amata (la rosa) e come l’usignolo è esule (gharib), cioè escluso dall’amore. Ma poiché l’usignolo è l’uccello dell’alba, e la preghiera dell’alba ha nel Corano particolare valore, il pianto dell’usignolo è la più alta preghiera d’amore. Tutto questo abbraccia miracolosamente anche il lettore che non è edotto di poesia orientale, ma che a partire dalle sue umane vicende, si confronta direttamente con la poesia d’amore, con la canzone d’amore.
Tre canti di Sayat-Nova
31
Tracciato col calamo il tuo ritratto, tramuti in mille colori il tuo aspetto,
il neo si nasconde sul tuo volto, se cali la cortina dei capelli.
Sei dischiusa come rosa rossa, e fai le tue rimecon l’usignolo,
come oro si dispongono i tuoi denti, delle labbra fai pietra di paragone.
Il tuo volto, come luna nuova, cresce e in cerchio si perfeziona,
non devi inumidire la tua treccia, senza avvolgerla s’arriccia la tua chioma,
ed è così che chi ti vede, finisce per smarrire il proprio cammino.
Entri nel convito e come fossi usignolo gioia diffonde il tuo trillo.
Città e città, villaggi e villaggi, vengono a vedere il tuo volto,
il morente da te riceve a guarirlo il balsamo che rende immortali.
Tintinni come lama d’argento quando ti muovi dal tuo posto.
Che t’importa di santur o kamancià, se fai risuonare i tuoi strumenti?
Nel tuo seno nutri le rose, le viole, il giacinto e il giglio.
A che serve il giardino al tuo signore? Il tuo profumo è quello del basilico.
Hai spiegato come vela i tuoi capelli, e li attraversa il vento,
il mondo è un mare, tu la nave che lo percorre e si culla sulle sue onde.
Se pur ti lodasse il mondo intero, non direbbe di te che in minima parte.
Ninfea, fiore dei mari, viola che si dischiude al vento.
Come resistere al tuo amore? L’acqua si porti via Sayat-Nova.
Chi t’ha visto più d’una volta dissennato hai reso e demente.
42
Orchestra perfetta, lodato fra gli strumenti, kamancià,
L’uomo da nulla non sa vederti, gli sei vietato, kamancià,
Tua meta sia giungere nei giorni migliori, kamancià,
Chi osa staccarci, sei tu il compagno del trovatore, kamancià.
La chiave, orecchio d’argento, la cassa gioiello di gemme,
sul manico avorio istoriato, sul ventre la madreperla,
nell’oro son tese le corde, si apre la rosa nel ferro,
nessuno sa dire il tuo pregio, rubino, diamante, kamancià.
L’archetto foglia d’oro, tramuta in mille colori,
Pelo fatato di Rakhsh, sa suggerirti rime soavi,
E fino al mattino son molti a vegliare e molti addormenti col tuo hascisc.
Sei tazza d’oro, ricolma di vino soave, kamancià.
Due volte tu servi il tuo suonatore, al tè e prima al caffè,
la sala risuona di elogi, tu cerchi le pause di quiete;
gioia e dolcezza se sali al convito, e in schiera le belle
ti stanno dintorno. Metà del convito sei tu, kamancià.
Tu volgi al sorriso il cuore più triste, plachi il tremore all’infermo;
se intoni la voce tua dolce, si schiude alla gioia il tuo suonatore,
rivolgi alla gente la tua preghiera, che dica : «Viva il tuo cantore!».
Finché vive Sayat-Nova, gioie t’attendono, molte, kamancià.
Kamancià è lo strumento a corde munito di archetto con cui il poeta accompagnava i suoi canti. I canti 31 e 42 (l’elogio della donna amata e l’elogio dello strumento) si sviluppano su procedimenti speculari. La bellezza della donna non si lascia dire a parole: è inafferrabile e perfetta come quella della musica, e come la musica può avere un miracoloso effetto taumaturgico.
34
Finché son vivo e a te m’immolo, che posso fare, amore?
Versare lacrime, soffrire, sospirare, per te penare, amore.
Hai detto: «Sono una gazzella». Lascia che ti contempli, che ti ascolti, amore.
Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto, amore, con le implorazioni.
Mazzi di fiori i capelli, pistacchio le labbra, è l’ora beata,
vieni andiamo nel prato, giungiamo al laghetto, delle gazzelle è l’ora,
proteso alla rosa è l’usignolo, la rosa si protendeallavigna, è l’ora del diletto.
Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto,amore, con le implorazioni.
Andiamo parlando vicini, la rugiada della serabagnai cespugli,
intoniamo la melodia, il tulipano, la rosa si sono dischiusi nei loro colori,
Il giardino è pieno di gigli, giacinti, usignoli in esilio.
Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto,amore, con le implorazioni.
Perfetta nelle tue forme, simile in tutto al ritratto di Leila,
per te ho perso le forze, amore, sulla siepe son rimaste impigliate le tue chiome.
Il giardino è nel suo splendore, sui rami della rosa l’usignolo dorme.
Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto,amore, con le implorazioni..
Vestita di raso ricco di ricami d’oro fino, flessuoso ramo di cipresso,
hai una tazza nella tua mano, colmala, dammela, a quella coppa m’immolo.
Fai pure a pezzi il tuo Sayat-Nova, purché tu venga nel mio giardino.
Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto,amore, con le implorazioni.
Sayat-Nova. Canzoniere armeno (edizione bilingue)
a cura di Paola Mildonian
ISBN 88-97476-24-5
pp. xxxviii + 214 – Euro 21,00
Edizioni Ariele – Milano